L’osservatorio sugli infortuni nelle Marche, redatto periodicamente dal Centro Studi Libertari “Luigi Fabbri” di Jesi, è iniziato come una semplice raccolta di dati periodica presa dalla stampa locale e da varie fonti di informazione, in particolare quelle di natura sindacale. A tutt’oggi è un’attività utile a denunciare il quadro funesto del mondo del lavoro. Un fatto se si vuole ininfluente sul piano giuridico, ma utile sul piano politico e sindacale. La crescita della consapevolezza dei lavoratori tutti, la possibilità di opporsi e contrastare l’esistenza di ogni fattore di rischio lavorativo diventano il primo strumento di una salvaguardia della salute sul posto di lavoro. Nelle Marche, come nel resto del paese. I numeri sono tali da consentirci di parlare dell’esistenza di una vera e propria strage quotidiana di proletari? Forse non in termini perentori, ma sottolineare la latitanza dello stato in tema di sicurezza sul lavoro è riconoscere un dato di fatto che dimostra la natura gerarchica e liberista delle istituzioni. La tutela fattiva della vita dei lavoratori non è neppure nei pensieri dei legislatori e nel corpo politico che continuano a legiferare senza, colpevolmente, stringere su controlli e sanzioni nei confronti di chi, per profitto, non si esime di causare morti e mutilati.
Ci sono due distinte dimensioni inerenti gli infortuni sul lavoro: quella umana ed etica che non può in alcun modo accettare che la vita e la salute delle persone vengano messe a repentaglio dalle logiche del profitto imperanti. C’è poi la dimensione prettamente economica che vede nelle drammatiche cifre delle vittime del lavoro la punta di un iceberg non solo in tema di infortuni, ma in tema di contrazione continua dei livelli salariali e delle condizioni lavorative della classe operaia. Spesso gli sfruttati non riescono neppure a farsi pagare gli stipendi, come nel caso dei 150 in lotta davanti ai cancelli di Mondial Suole a Porto Recanati, fino al momento in cui dai tavoli della contrattazione non sono uscite fuori le procedure di fallimento dell’azienda. Stipendi negati o perennemente dilazionati. Ormai è quasi una abitudine pagare lo stipendio dovuto dopo due, tre, quattro mesi. E mai per intero. Si va avanti con acconti e anticipi di vario tipo. I proletari tirano la cinghia, i padroni no. E non è certo il bisogno cronico di liquidità delle piccole e medie imprese, nell’era della globalizzazione mondiale, che può giustificare tutto questo. Tutt’altro. La negazione di salari e di sicurezza è ormai assurta a sistema e, presto, con il welfare aziendale, si avrà la versione moderna delle fichas delle miniere andine: non ci sarà bisogno più neanche di un vero e proprio stipendio. Le fichas che erano semplici pezzi di cuoio numerati che davano diritto ad acquistare generi alimentari negli empori dello stesso padrone della miniera. Ieri le fichas, oggi i voucher di renziana memoria. E in tasca non ti resta più nulla. La schiavitù del terzo millennio è servita.
La forza delle rivendicazioni sindacali è ormai un pallido ricordo. Non solo si crede sempre meno nelle proprie capacità, ma ormai non si ha neanche più una minima parvenza di identità di classe e la spettacolarizzazione della lotta diventa obiettivo da raggiungere prima ancora che strumento da rifuggire. Riuscire a farsi ascoltare oltre il brusio dei social e liberi dal rimbombo degli influencer è impresa ardua. Attirare l’attenzione di una stampa anestetizzata, nel migliore dei casi, o complice, nella routine quotidiana, significa armarsi di disperazione e improvvisazione e fare scelte spettacolari quanto pericolose, dove la rivendicazione sale i 100 metri dell’altezza della ciminiera di una fabbrica, come sta accadendo in Sardegna, alla Kss di Portovesme, nel Sulcis.
Vero è che alcuni padroni ultimamente si sentono dei benefattori, pur elargendo solo misere briciole di aiuto come surplus e premi vari in busta paga o buoni carburante o per pagare bollette varie, per aiutare insomma a superare la crisi. Nella consapevolezza che la stessa – la crisi – l’hanno generata gli stessi padroni. Non sia mai fare invece interventi strutturali come alzare gli stipendi mensili. Guai a mettere a rischio i margini del profitto aziendale (padronale) aumentando garanzie e riconoscimenti, tutele e sicurezze. Anche per gli stessi investimenti nell’azienda, gli imprenditori di italica stirpe la tirano alla lunga pur di raccattare tutte le briciole del pasto feroce, sperando nei periodici – e sicuri – interventi statali. Si può arrivare a dire che evasione ed elusione fiscale, lavoro nero e delocalizzazione hanno un legame diretto con l’aumento dei morti, degli infortuni e delle malattie sul lavoro? E nella società stessa? Di fronte a tutto questo il panorama politico offre la chimera della riconversione industriale nel tanto decantato turismo da sviluppare, fatto però unicamente di altra evasione, altri stipendi da schiavi e tanti altri aiuti statali per ritrovarsi con una selva di locali che vivono sull’orlo continuo della chiusura, mentre commesse e camerieri vivono sull’orlo continuo della disperazione, rappresentando una nuova categoria sociale: i poveri da stipendio da fame.
In tutto ciò, i pessimi tempi di vita e gli altrettanto pessimi redditi incidono negativamente sulla natalità, tant’è che anche l’ingresso di lavoratori con ancora meno diritti di quelli residenti è rallentato a favore di altre zone del paese o altre zone geografiche. Ecco che, oltre ad illustri professori universitari, e centri di pensiero politico ed economico – padronale s’intende, come nel caso della marchigiana Fondazione Merloni – la gran parte di popolo si è accorta della qualità (bassa) di una parte delle proposte di lavoro presenti nella regione, sia rispetto alle condizioni contrattuali sia ai livelli di remunerazione, in particolare per alcuni settori. Ad esempio i settori di alloggio e ristorazione o delle attività di intrattenimento hanno livelli di retribuzione media fra i più bassi del paese, espressione schietta della più elevata forma di precarietà lavorativa, presente diffusamente anche nelle attività agricole e nel settore delle costruzioni. Solo l’industria e il terziario sembrerebbero ancora in grado di offrire condizioni lavorative non degradanti. Settori dalle dimensioni d’impresa però a dir poco microscopiche, con conseguenti bassi livelli di produttività (valore aggiunto per addetto) e bassi livelli retributivi per il lavoro.
Quindi parte degli squilibri sul mercato del lavoro sono da attribuire alle caratteristiche della domanda di lavoro. La capacità di creare opportunità di lavoro di qualità è il principale indicatore dello sviluppo di un territorio. Vale per le Marche, e per il resto del paese. E non solo. Il calo demografico dovuto al travaso di soggettività con un percorso di formazione elevato verso altre zone più remunerative si rispecchierà nei prossimi anni in un calo di entrate per gli enti pubblici regionali e comunali, peggiorerà il già evidente taglio di servizi, spingendo sempre più il coltello nella piaga della diseguaglianza sociale. Sul lato della permissività politica, si accetta di tutto, pur di salvaguardare microimprese che tagliano sulla sicurezza e sulle garanzie per i lavoratori.
L’INAIL, nel rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza per il 2021, riporta un tasso di irregolarità dell’83,40% (il più alto in assoluto rispetto a tutte le regioni italiane) con percentuali ancora più alte in settori specifici: 90,86% nelle costruzioni e 92,68% nei servizi di supporto alle imprese. Nelle cooperative di lavoro si evidenzia un tasso di irregolarità dell’83% con una percentuale di lavoratori in nero o irregolari del 10,74%. Quasi comici – in realtà drammatici – sono i numeri dei controlli effettuati nelle Marche: appena 702, le violazioni accertate si riferiscono a 4528 lavoratori, 665 dei quali completamente in nero, e 223 soggetti a sfruttamento o caporalato. Ben 1490 lavoratori coinvolti in fenomeni di interposizione illecita di manodopera. Sono talmente pochi i controlli svolti che si registrano appena 999 violazioni sull’orario di lavoro e 1172 violazioni in materia di salute e sicurezza. Va ricordato inoltre che affidarsi unicamente alla rivendicazione di controlli regolari, non solo è una goccia nel mare dell’emancipazione dei lavoratori, ma è una illusione politica prima ancora che un’utopia sociale che non può condurre a miglioramenti, anche minimi, della grave situazione della classe operaia. Azzardato dire che solo l’organizzazione dei lavoratori può provare a tutelare le loro condizioni di vita. Forse, ma di tremenda attualità.
Jorio Medici